Porto dentro di me un’immagine familiare di Totò. Il suo viso mi fa sorridere, le sue smorfie riflettere. Ho attraversato in libertà le sue considerazioni sulla vita, sulle donne, sul suo desiderio di calma, sulla difficile condizione di essere comico.
Pensieri a volte in contrasto con il suo personaggio. Due anime così diverse, nello stesso corpo, Totò l’attore e Antonio De Curtis l’uomo. In scena si stuzzicano, si contaminano, si alimentano, tra vita e teatro, fino a fondersi.
Quando Totò diventò quasi completamente cieco a Fellini apparve come “… un dolcissimo fantasma … un esserino incorporeo …”.
Ho utilizzato testi di varia natura: un estratto dallo spettacolo Volumineide, dove Pinocchio tirato dai fili della politica diventa una marionetta nel paese dei balocchi, schegge da Petrolini, il monologo Lettera d’amore di Karl Valentin, un ricordo di Federico Fellini, La livella a dialogare con la sua voglia di tornare dal cinema al teatro.
“Porto dentro di me ancora forti i ricordi del lavoro con Leo de Berardinis che, con Totò principe di Danimarca, già affrontò egregiamente il nostro eroe. Allo stesso modo i racconti su mio nonno, che fu amico intimo di Totò, continuano a ispirare il mio racconto”.
Marco Manchisi